
by CARMELO DI MAURO
Non vi è mai piaciuta la matematica? Vi ha procurato soltanto guai e dolori? Una ricerca di neuroscienze vi può consolare perché i ricercatori hanno scoperto che un problema di matematica attiva i centri nervosi del dolore in coloro che hanno “un cervello ansioso”.
Ho appena pubblicato un articolo su Net1 News (update: ne hanno preso spunto per un servizio sulla Rai nel Tg1 delle 20,00, cliccando [qui] troverete il video in streaming e il pezzo al minuto 31) dove parlo della ricerca di Ian M. Lyonse Sian L. Beilock, i quali hanno misurato l’attività neurale di due campioni di soggetti, il primo composto da 28 partecipanti che quando svolgono compiti di matematica presentano alti livelli di ansia e il secondo di 14 soggetti con bassa ansia nelle analoghe prestazioni scolastiche. A tutti veniva effettuata una risonanza al cervello mentre eseguivano problemi di matematica.

I ricercatori hanno scoperto che si accendono le zone del cervello connesse alla percezione del dolore (l’insula dorsale posteriore) e alle situazioni di pericolo (le cortecce cingolate mediali) ai soggetti del gruppo ansioso. Appena osservano un compito di matematica, in queste regioni cerebrali si intensifica l’attività metabolica (il segnale BOLD), mentre nel cervello dei soggetti con bassa risposta ansiosa non si verificano questi schemi di attivazione.
E’ interessante l’inerpretazione che ne da Ian Lyons, uno dei collaboratori dell’equipe di ricerca: «l’ansia si manifesta durante la fase anticipatoria, c’è già prima di eseguire il compito». Infatti, l’attivazione neurale quando si prova dolore e paura, correlati all’ansia, non si manifesta durante il compito ma prima. Questo significa che non è la matematica in se stessa a “farci soffrire” ma la convinzione che possa essere dolorosa. Basta la sola anticipazione perché nel nostro cervello si attivino i circuiti nervosi deputati all’elaborazione del dolore e per dare l’allarme di pericolo.
Il problema non sono i numeri ma l’interpretazione psicologica che in certe condizioni procura una sorta disofferenza preliminare tale da mettere a rischio laprestazione. Ne sanno qualcosa gli insegnanti che spesso si trovano di fronte ad alunni in preda ad autentici attacchi di panico prima di un compito o durante un’interrogazione. Un altra situazione esemplare è rappresentata da coloro che entrano in crisi nei rapporti intimi con il partner quando temono di non essere all’altezza nelle loro prestazioni.
Possibile che una parte dell’umanità allora si sia evoluta psicologicamente con una fobia verso la matematica? Lyons ritiene che sia improbabile, saggiamente. La matematica è un’invenzione culturale relativamente recente, vecchia di poche migliaia di anni. Il ricercatore suppone che la risposta ansiogena sia condizionata dall’esperienza personale della persona. «Se ha avuto esperienze negative associate ai numeri, tenderà a interpretare ogni nozione di matematica in termini minacciosi che, in alcuni casi, può causare persino dolore».
Come affrontare questo spinoso problema che la maggior parte degli studenti conosce bene? «Se sei un ansioso in matematica, lavora sull’ ansia. Non è una buona idea svolgere a casa un’eccessiva quantità di esercitazioni. Invece, è più utile cercare un modo per rendere più rassicurante l’idea della matematica».
Mi sembra un approccio promettente. Gran parte delle nostre previsioni sono realizzate per evitare pericoli o conseguenze svantaggiose. Produciamo costantemente futuro per poter controllare gli eventi e sentirci sicuri nel presente. Il ricercatore apre la strada ad una interpretazione cognitivistica: lavorate sulla credenza inappropriata che la matematica sia minacciosa. Una volta risolto questo bias (giudizio errato) si abbasserà il senso di ansia di fronte al compito di matematica.
Ma non è così semplice la questione: non tutti vanno in crisi di fronte ad un problema di numeri, né “risolvono” il problema con una crisi di panico. Conta l’esperienza personale, cioè la storia della persona e il modo in cui ha costruito nel tempo la propria immagine. Ci sono molti ragazzi ad esempio la cui immagine tende a corrispondere alle aspettative degli altri, per dimostrare diessere all’altezza. Da un punto di vista clinico questa “esagerata” sensibilità verso le valutazioni o le sole aspettative degli altri nelle proprie prestazioni scolastiche può sfociare in un disturbo alimentare, in particolar modo nelle fasi di transizione nel corso della vita.
In queste fasi storiche l’immagine verso l’ambiente sociale conta moltissimo, ad esempio nella adolescenza quando anche il corpo si trasforma, ci sono le prime esperienze sentimentali e le donne hanno le prime mestruazioni. A scuola ci sono quei casi di studenti molto bravi e con un alto livello di prestazioni che improvvisamente scompensano in un attacco di panico. Mi capita di ascoltare professori o mamme sconcertati per queste crisi proprio in ragazzi che in genere non hanno alcun problema verso la matematica e tutte le altre materie.
In questi casi è sempre meglio non farsi confondere dalla sintomatologia ansiosa. In genere i ragazzi sono sempre abbastanza preparati, non sono “costretti ad imparare”, ma temono di non farcela e di deludere le persone significative (i genitori in genere). Per loro, la delusione, le sfumature di angoscia e rabbia sono emozioni difficili da riconoscere perché l’attenzione è rivolta verso l’attesa esterna e il mondo emotivo interno è quasi inaccessibile, anzi è quasi un uno specchio: alla soddisfazione dell’altro corrisponde quella personale, rendendo complicata la decifrazione delle proprie emozioni.
Il guaio sopraggiunge quando l’altro (il genitore, il partner, il datore di lavoro) dà segnali ambigui di soddisfazione, innescando nel ragazzo/a una “compulsione” a superare i limiti, ad essere sempre più all’altezza, a prendere il voto più alto, a dare performance oltre la media, per ‘far piacere’ alla persona che conta di più. Questi ragazzi sono degli specialisti ad osservare le espressioni dell’altro, ad analizzare profondamente le valutazioni, mentre fanno una fatica immensa a riconoscere ed etichettare le proprie emozioni (condizione psicologica chiamata alessitimia). Fino a quando, nei casi patologici come l’anoressia, non resta che puntare sul proprio corpo e farlo sparire paradossalmente per catturare l’attenzione altrui.